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Notizia del 05/07/2018

Novantasei consumatori su cento vorrebbero conoscere l’origine della materia prima di un prodotto alimentare, prima di acquistarlo. Per questo, l’anno scorso, i nostri ministeri dell’Agricoltura e dello Sviluppo Economico hanno finalmente deciso che a partire dal 2018, i produttori degli alimenti base più consumati sono obbligati a scrivere sull’etichetta se la materia prima è stata prodotta in Italia, oppure importata dal mercato interno europeo, o da quello extracomunitario. Oggi quindi i consumatori italiani, al supermercato, possono leggere da dove arriva il latte, dove è stato coltivato il grano con cui è stata fatta la pasta, dove è cresciuto il pomodoro delle salse. Siamo l’unico Paese europeo ad avere un obbligo di trasparenza così stringente, ma durerà poco.

I produttori si oppongono al decreto
Appena emanato il decreto, l’associazione italiana dei pastai (Aidepi) – a cui sono iscritti tra gli altri Barilla, Divella, Felicetti e Garofalo – ha subito fatto ricorso al Tar del Lazio: «Si vuole indurre il consumatore a preferire la pasta in base all’origine della materia prima impiegata, ma l’origine del grano non è sinonimo di qualità». Alla fine il Tribunale ha respinto il ricorso ritenendo «…prevalente l’interesse a tutelare l’informazione dei consumatori». Vale la pena di ricordare che la nostra industria della pasta vale 4,7 miliardi di euro, che la produzione italiana di grano è di 4,3 milioni di tonnellate e che ne importiamo da tutto il mondo altri 1,74 milioni di tonnellate. Un tema non banale, se i consumatori si mettono in testa che «italiano è meglio» ad esempio perché abbiamo regole severe sull’uso di pesticidi e diserbanti. Anche la «Food drink Europe», la lobby dell’agroalimentare che riunisce i marchi Danone e Nestlé, insieme alle sigle di Confindustria, aveva reclamato presso la Commissione europea: «I membri considerano con preoccupazione le tendenze a rinazionalizzare determinate norme e politiche nel settore». In altre parole: «Sull’argomento deve decidere la Commissione e non un singolo Paese».

Il nuovo regolamento europeo
Mentre l’industria agroalimentare italiana, nonostante i «mal di pancia», si sta adeguando con l’aggiornamento delle etichette, il 28 maggio a Bruxelles il Presidente Juncker firma il nuovo regolamento europeo che azzera il decreto nazionale. Dal 1 aprile 2020, sarà obbligatorio indicare da dove viene la materia prima solo quando «il paese d’origine è indicato attraverso, illustrazioni, simboli o termini che si riferiscono a luoghi o zone geografiche». In pratica vuol dire che, fra un paio d’anni, in Europa, gli unici vincolati a dichiarare la provenienza dell’ingrediente principale, saranno le aziende che mettono sulla confezione dei «tratti» che ne evocano l’origine. Per fare un esempio: quando sulla scatola di pasta c’è scritto «100% italiana», il produttore sarà obbligato a dichiarare se la semola è tutta italiana o una parte è importata dalla Romania o dal Canada. Se invece la confezione non lascia intendere un preciso legame con un territorio, basta scrivere: «Ue» oppure «non Ue» o «Ue e non Ue» o anche niente. In sostanza, un regolamento che mette in riga chi vuole spacciare per italiano un prodotto che italiano non lo è, o non del tutto, ma lascia a tutti gli altri maglie larghe. Il giorno delle votazioni al Berlaymont soltanto Germania e Lussemburgo si sono astenute dal voto, mentre l’Italia, che si era sempre dichiarata contraria, si è poi schierata a favore della nuova etichetta.


Cosa vogliono i consumatori?
L’agroalimentare è l’eccellenza italiana nel mondo. Soltanto l’industria della trasformazione del pomodoro vale 3 miliardi e rappresenta il 47% del mercato comunitario. Il riso, con una produzione di 1,50 milioni di tonnellate, conta il 50% di tutta la produzione Ue. La filiera del latte nostrana vale oltre 15 miliardi di euro. Gli italiani, che consumano a testa ogni anno 24 kg di pasta, 30 kg di salse e 53 litri di latte, fra i 28 Paesi membri sono i cittadini più coinvolti in questa vicenda.

Anche se una piccola fetta di mercato sceglierà la spesa guardando solo al prezzo, le indagini del ministero dell’Agricoltura dicono che il 96% dei consumatori ritiene importante un’etichetta dove sia scritto in modo chiaro e leggibile l’origine dell’alimento base su tutti i prodotti alimentari. Secondo le ricerche dell’Europarlamento l’84% dei cittadini europei ritiene necessario indicare l’origine del latte, mentre il 90% vuole un’etichettatura trasparente per gli alimenti trasformati.

Cosa faranno i produttori dal 2020?
Oggi le più grandi associazioni di categoria della Confindustria dicono che comunque non cambierà nulla. Il presidente di Aidepi Riccardo Felicetti, dichiara: «Continueremo a fornire le stesse informazioni di oggi; non abbiamo nessuna intenzione di tornare indietro». Anche il direttore di Anicav Giovanni De Angelis mette le mani avanti: «Stiamo immaginando di mantenere questa posizione, indipendentemente dal fatto che la regola Ue la renda facoltativa». La pensa uguale anche il direttore di Assolatte Massimo Forino: «Ci sarà scritto non più per legge, ma per scelta aziendale». Si associa Roberto Carriere di Airi: «Una volta che abbiamo scritto ‘riso Italia’ non vedo perché dovremmo toglierlo». Vedremo. Per ora chi sgarra rischia una multa fino a 9.500 euro e Coldiretti promette battaglia. Anche il Parlamento europeo, che già nel 2016 si era espresso a favore di etichette trasparenti sull’origine del prodotto, ha riaperto il tema in Commissione agricoltura, con l’eurodeputato Paolo De Castro: «Mi auguro che il nuovo governo sostenga lo scontro con gli altri Paesi e li convinca. Lo vogliono i consumatori». Già, i consumatori, queste galline dalle uova d’oro così facili da ingannare, hanno però il potere di orientare le politiche, ogni volta che scelgono cosa mettere nel carrello della spesa.



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