ORGANIZZAZIONE A TUTELA VALORIZZAZIONE E ACCREDITAMENTO ALL'ESTERO DEL VERO PRODOTTO ITALIANO
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Notizia del 24/08/2012

Alzi la mano chi sa quali sono le aziende che producono il prosciutto di Parma, il parmigiano reggiano, il San Daniele friulano o il gorgonzola. Eppure si tratta di eccellenze riconosciute e ambite nel mondo. Sinonimo di qualità, territorialità, tipicità, made in Italy. È da questa semplice constatazione che parte la nuova sfida del comparto della trasformazione del pomodoro nella roccaforte dell'oro rosso: l'Agro-Nocerino-Sarnese, territorio a cavallo tra Napoli e Salerno, una striscia di territorio che regge la sua economia proprio sulla lavorazione del pomodoro. L'obiettivo è realizzare un marchio del pomodoro pelato, vera tipicità del luogo dal 1881, quando se ne inscatolarono i primi. «Anche perché si è sicuri che il pelato non è copiabile dai cinesi, in 12-18 ore deve essere raccolto, trasformato e inscatolato. Quindi siamo in presenza di vero made in Italy, ricco di qualità, tradizione, per la lavorazione del quale occorre una manodopera altamente formata. E si tratta di un prodotto che oggi sarebbe definito ecosostenibile: il pelato va solo in vetro o barattoli d'alluminio che sono riciclabili» spiega Lino Cutolo, della Compagnia Mercantile d'Oltremare spa, 22 milioni di fatturato, il 90% del quale tra Cina e Africa e un paio di marchi (Ciao e Solaria). Le parole di Cutolo sono anche più indicative perché pronunciate da un imprenditore che fonda il suo business sulla produzione di concentrati, l'antitesi del pelato. Investire sul brand come unica soluzione a un declino favorito non tanto dalla crisi globale, quanto dalla crescita delle economie emergenti, Cina su tutte, dalla fluttuazione valutaria di dollaro e yen, e dalla eccessiva polverizzazione delle realtà produttive. Spesso troppo piccole e comunque divise in due fazioni: industriali e agricoltori che male riescono a fare squadra. «Purtroppo la politica degli incentivi non ha favorito la sana selezione del mercato – spiega Luigi Coppola, a capo dell'omonima spa che è la prima azienda in Europa per baby food, 22 milioni di fatturato l'80 per cento da export proprio di semilavorati per alimenti per bambini –. Negli anni Ottanta c'era una visione imprenditoriale. Ma la politica dei contributi ha distratto i più, facendo perdere quella cultura imprenditoriale tipica di queste aree a favore di Paesi terzi. L'impresa non si fa con i contributi, abbiamo perso un treno e ora bisogna trovare nuove vie di competitività». «Non c'è dubbio – aggiunge Francesco Senesi, ad della Lodato Gennaro & C. spa che commercializza il marchio Annalisa, 60 milioni di fatturato diviso equamente tra mercato domestico e straniero e 600 addetti tra fissi e stagionali –, che il settore è stato drogato dai contributi. Ora con il sistema delle soglie è diverso. In ogni caso ci troviamo di fronte a una platea aziendale che mediamente è sottocapitalizzata. E più che di contributi – aggiunge Senesi, che è anche a capo della sezione alimentare di Confindustria Salerno – c'è bisogno di finanza per sostenere attività su base annua quando poi la produzione si concentra solo in 40 giorni come noto. Ma i fornitori e i partner vanno pagati. E occorre poi fare un salto di mentalità per passare da gestioni familiari a manageriali, per trasformarsi da conservieri ad imprenditori dell'agroalimentare». Ma anche Senesi poi è impegnato su una moral suasion verso i colleghi di settore, tutta finalizzata a investire sul brand: «Non esiste da altra parte il pomodoro pelato. È presente solo nel nostro distretto e dobbiamo esaltare questa unicità. Per farlo, serve unire gli sforzi di chi coltiva, di chi trasforma, di chi distribuisce», conclude. Anche perché la «frammentazione non paga: a fronte di 2-300 conservieri esistono solo 4-5 centrali d'acquisto. Che fanno il bello e il cattivo tempo. Così facendo – incalza Coppola – si farà uno sforzo evolutivo che modernizzerà un sistema vecchio e obsoleto, ma basato su manodopera eccellente, con grande know how. Solo così potremmo sfidare l'elite produttiva. Elevando ancor più la nostra qualità». D'altra parte, è noto, nei periodi di crisi, i consumatori spendono meno ma per prodotti più costosi. Quindi marketing come strategia di crescita, ma anche ricorso a indicazioni di tutela (in particolare l'Igp del pelato per il quale si sta lavorando), progetti di filiera e programmi di reti d'impresa, sinergie. Una sorta di grande alleanza tra conservieri e agricoltori, la mission adesso sul tavolo delle associazioni di categoria, un po' come nel modello delle coop del Centro-Nord che hanno fatto la fortuna di tanti prodotti dell'agroindustria Made in Italy. «Negli ultimi venti anni – spiega Pasquale D'Acunzi, storico presidente dell'Anicav, l'associazione dei conservieri che dopo una parentesi in politica è tornato ad occuparsi a tempo pieno dell'azienda di famiglia – possiamo dire che il nostro sistema produttivo ha retto». E in effetti i numeri lo testimoniano. Delle 130 aziende degli anni Novanta, adesso se ne contano 85. Ma non si è trattato di un crollo – se si eccettua qualche singolo caso come quello della Cirio poi rilevata dall'emiliana Conserve Italia – quanto di un processo di aggregazione. Visto che la capacità produttiva è rimasta grosso modo immutata: circa 2,5 milioni di tonnellate – sui 5 a livello nazionale – di cui 1,5 di pelato. Così come sono rimasti immutati il giro d'affari (1,8 miliardi delle aziende iscritte all'Anicav che per l'85 per cento hanno sede proprio nell'Agro-nocerino-sarnese e per il 90 per cento al Sud) e l'occupazione.

FONTE: ILSOLE24ORE.COM



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