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Notizia del 15/09/2017

Da: corriere.it -   Lo dico al Corriere

Caro Aldo, 
mi ha colpito la lettera della mamma che piange sui sogni infranti dei giovani che devono superare il numero chiuso all’università. La mia generazione a 17-18 anni, salvo pochi casi, lavorava: alcuni studiavano di sera; altri facevano il doppio lavoro. La parola «sogni» non esisteva. Troppe università sono una fabbrica di frustrati. La storia della Statale di Milano è emblematica: piena di gente che tra qualche anno, con un foglio di carta in mano, pretenderà un lavoro adeguato. 
Piero Vittorio Molino piero vittoriomolino@libero.it

Caro Piero Vittorio, 
È senz’altro vero che la sua generazione ha fatto sacrifici che oggi non riusciamo neanche a immaginare, ricostruendo un Paese distrutto, ripartendo quasi da zero. Ed è altrettanto vero che la retorica del «ci stanno rubando il futuro» e del piagnisteo è insopportabile. Il futuro dipende innanzitutto da noi. Lei sa però che esiste anche un’altra retorica, su cui già quarant’anni fa ironizzava Edoardo Bennato: «Ai miei tempi che vuoi sognare/c’era solo da lavorare». 
La parola «sogno» va sempre maneggiata con cura. Ad esempio definire «Dreamers», sognatori, i figli degli stranieri entrati illegalmente negli Stati Uniti è un accorgimento astuto per dare a una questione sociale una connotazione umanitaria e romantica. Pensi all’uso distorto della citazione shakespeariana «siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i nostri sogni»: Shakespeare intendeva dire che siamo ombra, polvere, vanità. Lasciamo sogni e sognatori alla letteratura, e occupiamoci di una cosa molto concreta: il lavoro. Bene troppo scarso, e nonostante questo troppo tassato. Molto cercato a parole, spesso rifiutato nella realtà. È giusto che i laureati facciano un lavoro consono a ciò che hanno studiato; in particolare chi è arrivato a una laurea professionalizzante come quella in medicina. Ma è altrettanto giusto recuperare il gusto del lavoro ben fatto, anche del lavoro fatto con le mani: l’artigianato di qualità, i mestieri d’arte, e anche i lavori di cura. Lavoro è dignità, inclusione, comunità, possibilità di costruirsi il proprio destino, di fare una famiglia, di ritagliarsi un’indipendenza. Il resto sono paghette o reddito di cittadinanza; cioè assistenza, privata o pubblica.



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