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Notizia del 05/01/2016

La prima riforma colpirà il vocabolario. Nessuno potrà più apostrofare un fallito dicendogli: «Fallito!» Semplicemente perché la parola fallimento sarà bandita dai codici.

La «sorpresa» è prevista nella legge delega che il consiglio dei ministri approverà fra un paio di settimane. Sostituiranno il vocabolo maleodorante con una ben più anodina espressione: «Liquidazione giudiziale». L’ultima piccola rivoluzione del politically correct lessicale, dopo quelle che hanno investito le nostre infinite leggi, dove i ciechi sono diventati «non vedenti» e i sordi «audiolesi», mentre la caccia veniva trasformata in «prelievo venatorio» e i lavoratori a rischio licenziamento si scoprivano addirittura, grazie a uno zelante sfrondone linguistico, «esuberanti».
Ma questa è diversa. Nella scomparsa della parola c’è l’essenza stessa della riforma del diritto fallimentare che Matteo Renzi ha detto di voler mettere in pista prima possibile, all’inizio di un 2016 che almeno da questo punto di vista comincia un po’ meglio dell’anno appena finito. La notizia è che per la prima volta dal 2011 i fallimenti sono in diminuzione: i dati di Infocamere la società di informatica che fa capo all’Unioncamere oggi presieduta da Ivan Lo Bello, dicono che nei primi undici mesi del 2015 hanno fatto crac 12.583 imprese, il 4,8 per cento in meno rispetto ai 13.223 dell’anno precedente. Anche se il maggior numero di procedure si registra ancora nel cuore economico del Paese, con il più elevato tasso di fallimenti in Lombardia (2,8 per mille imprese contro una media nazionale di 2,1): a conferma della fragilità della nostra ripresina. Il che non deve tuttavia deprimere le buone intenzioni.

Perché eliminare quel marchio d’infamia, «fallimento», significa allinearsi «a una tendenza già manifestatasi nei principali ordinamenti europei di civil law , volta a evitare l’aura di negatività e di discredito, anche personale, che storicamente a quella parola si accompagna. Negatività e discredito non necessariamente giustificati dal mero fatto che un’attività d’impresa abbia avuto un esito sfortunato»: c’è scritto nella relazione che accompagna il disegno di legge. Dove si aggiunge che «anche solo dal punto di vista dell’immagine appare assai singolare che la normativa di base sia ancora costituita dal regio decreto 19 marzo 1942», approvato quasi 74 anni fa dal regime fascista, in piena Seconda guerra mondiale.
Quella relazione porta la firma di Renato Rordorf, da pochi giorni presidente aggiunto della Corte di Cassazione, ex commissario della Consob. A lui il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha affidato nel febbraio 2015 la guida della commissione incaricata di mettere a punto il testo. Un incarico da far tremare le vene ai polsi, a giudicare almeno dai precedenti.

Negli anni Ottanta il progetto di riforma della commissione presieduta dal giudice Piero Pajardi naufragò miseramente. E vent’anni dopo toccò a un’altra commissione, affidata al futuro vicepresidente del Csm Michele Vietti, ex parlamentare dell’Udc, misurarsi con quella materia densa di ostacoli insormontabili.
Uno dei più ostici è rappresentato senza dubbio dalle resistenze delle potenti burocrazie ministeriali. Un esempio? Rordorf avrebbe voluto ridimensionare fino all’osso il ricorso all’amministrazione straordinaria, ma l’opposizione dei dirigenti del ministero dello Sviluppo economico l’ha costretto «a una profonda revisione dei testi inizialmente ipotizzati». Con il risultato che l’amministrazione straordinaria sopravviverà pressoché tale e quale, con il suo carico di grandi e meno grandi interessi. E si capisce perché.
Quel meccanismo era stato introdotto per salvare le grandi imprese in crisi, il cui fallimento avrebbe comportano conseguenze economiche e sociali particolarmente gravi. È diventato invece negli anni un sistema per mettere le pezze anche a ospedali ed enti di formazione sindacali (come lo Ial Cisl Piemonte), distribuendo consulenze a professionisti amici e politici in disarmo: oggi ci sono 400 società commissariate, con 195 incarichi da commissario. Il tutto, ovviamente, affidato all’amorevole gestione del ministero dello Sviluppo economico.

Eppure la filosofia stessa della proposta della commissione Rordorf contrasta in modo evidente con la logica dell’amministrazione straordinaria riservata al salvataggio di una determinata categoria di imprese. L’obiettivo di fondo della riforma è infatti quello di intervenire prima che la crisi aziendale diventi irreversibile, favorendo le mediazioni fra debitori e creditori e facilitando l’attivazione di piani di risanamento e gli accordi di ristrutturazione.
Il tutto seguendo il principio di preservare finché possibile la gestione dell’impresa pur se in difficoltà. Al punto che pure l’istituto del concordato preventivo viene interpretato dalla riforma come uno strumento finalizzato a questo risultato, prevedendo che serva a superare gli stati di crisi «mediante la prosecuzione diretta o indiretta dell’attività aziendale».
Quando poi la situazione dovesse precipitare, ecco un paracadute più efficace per i crediti dei dipendenti. Ma anche una rete di tribunali scelti in base a certi parametri, con lo scopo di evitare certi tempi biblici delle liquidazioni. Come quello sperimentato dalla piccola ditta barese Otello Semeraro, dichiarata fallita nel 1962 e la cui procedure si è chiusa mezzo secolo dopo, quando erano quasi tutti morti. E con il 60 per cento degli incassi evaporati in spese e compensi dei curatori...



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